Il testo l’inutile fatica, frutto di un lavoro gruppale, e quindi, concepito in un terreno relazionale, è la testimonianza di una giornata di studio e approfondimento che ha visto coinvolti gli autori sui temi della crisi economica, della precarietà lavorativa e del malessere esistenziale che ne deriva. “Il pretesto” è l’opera di Ehrenberg “La fatica di essere se stessi”, il cui punto nodale è la constatazione di come la depressione sia diventata una delle patologie più presenti del nostro tempo.
Il testo e il pretesto dai quali si parte ci costringono a fare i conti con le forme del malessere contemporaneo, ci portano a guardare al sintomo nella sua natura gruppale e a dare rilievo al disagio come formazione sociale.
Storicizzare la mente, come ci intima Ferrari, è quindi un dovere. Come lo è mettere in crisi i modelli precedenti e fare della clinica una scienza viva che non si esime dal conflitto. Evitare il conflitto porta invece ad uno sguardo immobile sul malessere, come se la mente fosse una entità separata e impermeabile alle ruvidità delle varie epoche.
La depressione diventa la lente attraverso la quale, in modo sfaccettato, si guarda ai cambiamenti della nostra epoca. Come sottolinea Ferrari tutto ciò che riguarda la psiche non può essere significato nel luogo sterilizzato del laboratorio d’analisi, ma può essere compreso solo se colto nel suo terreno d’origine.
La complessità della questione è specularmente resa dalla complessità degli sguardi che si intrecciano nel testo. L’inutile fatica ci mostra questo tentativo di uscire dal rischio dell’autorefenenzialità, di non scadere in facili ideologismi, di leggere in modo complesso il dato storico e politico attraverso la clinica e il dato clinico attraverso la politica e il sociale.
In questo caso la depressione è sia un dato clinico che un dato politico e sociale. Lo si guarda sia attraverso i paradossi della nostra epoca che attraverso lezioni socratiche all’origine del pensiero occidentale fino ad arrivare alla crisi del materno.
All’inizio del testo ci si ritrova immediatamente immersi in una ricca riflessione sulla fatica dell’essere se stessi nella contemporaneità. La risposta a questa ingiunzione paradossale e a tale mandato sociale è un impoverimento del sé, una fragilità senza pari, che si innesca in un mondo sociale spogliato dalle comunità tradizionalmente aggreganti. Laddove il senso di comunità viene meno e l’ingiunzione predominante è quella della soggettivazione a tutti i costi si fonda l’humus della depressione, della fragilità del sè, del ritiro sociale.
A partire da queste riflessioni Lo piccolo mette in risalto il punto di cambiamento qualitativo nel vissuto depressivo del nostro tempo. Ci invita a guardare a come non sia più caratterizzato dalla colpa ma dal senso di inadeguatezza e dalla pervasiva sensazione di vergogna. Aspetti questi ultimi determinati in modo reattivo alle richieste sempre crescenti del mercato.
Il nucleo patogeno della depressione non è più caratterizzato dalla colpa ma dal deficit. Non ci si confronta più con strutture super egoiche rigide e sadiche ma con un ideale dell’io inarrivabile.
Non ci si volge più verso l’altro ma si rimane intrappolati in una dimensione narcisistica e spietatamente individualista.
In una coralità di voci vediamo consegnarci la grande solitudine relazionale del nostro tempo che appare ritmato da una competizione serrata e da una ricerca, perennemente frustrata, del successo a tutti i costi. E’ nella rifondazione del senso di comunità che si individua un elemento antagonista alla sofferenza del nostro tempo. Si coglie nel testo un invito a guardare alcuni movimenti di resistenza che hanno fatto da controaltare alla solitudine dell’uomo precario, alla gabbia interiore della depressione. In questo passaggio, come ci dice Lo Piccolo, si sottolinea il valore del processo più che dell’obiettivo.
Potremmo parallelamente dire che la comunità cura e, come in psicoterapia, il valore del processo di guarigione si ritrova nell’esperienza relazionale d’ascolto, sintonizzazione emotiva, valorizzazione del sè, rispecchiamento, confronto… Si ritrova già nel “viaggio”.
E’ ciò che ci trasmette Bifo, quando, prendendoci per mano lungo la lama che attraversa il disastro, alla morte del padre frappone la crisi del materno. Se guardiamo al materno in termini simbolici ci rendiamo conto che anche qui l’invito è alla riconnessione di trame, all’acquisizione di nuovi linguaggi, a concepimenti comunitari. E’ l’utero materno che ci consegna alla comunità. L’interiorizzazione del materno diventa allora nuovo terreno gruppale.
Inoltrandosi nella lettura ci si ritrova sospesi sulle macerie della politica. Si affonda lo sguardo in una delle trasformazioni più perverse del nostro tempo determinata dal venire meno della natura “collettiva” e “connettiva” della politica. Potremmo dire che a questo punto, con Cavaleri, ci ritroviamo a sbattere contro un altro paradosso, quello della “Polis” che non assurge più ad essere luogo di ricerca di soluzioni collettive a drammi individuali ma luogo di competizione dove vige la legge della giungla. Anche la natura connettiva della politica sembra venire meno e in tale scenario frammentato si innesca il paradosso del terzo settore, del “sociale”, dell’essere “buoni”.
E’ nel terzo settore che si mette in rilievo le contraddizioni della contemporaneità. Esattamente in quella area di lavoro che dovrebbe occuparsi del disagio diffuso. Area di mezzo tra pubblico e privato. luogo di sperimentazione di strade alternative. via d’accesso al volontariato, ai tirocini, a forme di “lavoro non retribuito”, ai “Buoni per dirla con Luca Rastello” che perseguono obiettivi salvifici al di là della retribuzione. Proprio perché la mission è nobile e i soldi sono cosa vile, perchè il datore di lavoro è nostro alleato nella missione salvifica e non si può deludere.
E’ in questo scenario che vediamo in modo abbagliante l’azzeramento del conflitto, la fedeltà al capo, la competizione tra pari. Si potrebbe dire che nelle trame smagliate della politica, non più connettiva nè garante del bene comune, si innescano guerre fratricide alimentate dal mercato, non solo nei luoghi dell’impresa pura ma anche lì, nell’area dei buoni, dell’impresa sociale, delle missioni salvifiche.
La depressione allora diventa un dato politico che ci segnala la mancanza di tutele, l’assenza di garanzie, un nuovo paradigma del lavoro che non è più nobilitante ma è l’osso che si tende davanti a un cane affamato. Tra elementi clinici, politici e lavorativi, assurge nel testo la figura di un eroe classico, un eroe spietato e feroce, che nell’inutile fatica compare nel passaggio all’età adulta, quando ancora tutto sembra in divenire.
Compare il fantasma di Alcibiade nel periodo della sua adolescenza. Ruvolo ci porta nell’era classica ad ascoltare una delle più raffinate lezioni socratiche.
Socrate al giovane Alcibiade ammonisce di non frapporre le mete ambiziose della realizzazione del sè al discapito della comunità. Segnala come compito etico di chi governa occuparsi del bene comune non anteponendo il benessere meramente individuale a quello della comunità. Ruvolo trasponendo tale lezione ai nostri tempi rimarca la differenza tra un narcisismo maligno caratterizzato da un sè grandioso alla ricerca di continue conferme, mai nutrienti e mai bastanti…. a un narcisismo buono caratterizzato dalla cura del proprio sè.
Attraverso la possibilità di prendersi cura di se stessi, in modo nutriente e curando le proprie relazioni, diventa possibile occuparsi/curarsi dell’altro. Solo attraverso questa strada si può restituire alla Polis il proprio spazio etico.