La malattia oncologica rappresenta sempre, per il paziente e per la sua famiglia, una prova esistenziale drammatica.
Questa dura prova riguarda tutti gli aspetti della vita: il rapporto con il proprio corpo, il significato dato alla malattia, alla sofferenza, alla morte, così come le relazioni familiari, sociali, professionali.
Di fronte alla malattia le reazioni sono particolarmente intense e caratterizzate da uno sconvolgimento del progetto esistenziale: si sperimenta impotenza e l’impossibilità di continuare a proiettarsi nel futuro, intervenendo sulla realtà presente attraverso il proprio agire.
Il cancro, associato al dolore e alla morte, minaccia l’esistenza dell’individuo comportando grossi rischi per il suo equilibrio psichico.
Pertanto la situazione necessita di nuovi adattamenti psicosociali
Obiettivo primario di ogni intervento che abbia per oggetto il disagio psico-sociale dei pazienti affetti da neoplasia è quello di migliorare la qualità di vita e di limitare il rischio di conseguenze psicopatologiche. Lo psicologo è una figura essenziale nel favorire la comunicazione e la relazione con questi pazienti.
L’intervento psicologico clinico in oncologia ha come principali destinatari il malato e la sua rete sociale prossima, costituita in primo luogo dai familiari. Per questi ultimi la possibilità di un supporto psicologico specifico riguarda non soltanto il periodo di malattia del paziente ma anche il momento successivo all’eventuale decesso, nelle fasi che caratterizzano l’elaborazione del lutto.
Il morire non è un problema privato del morente, anche la famiglia viene proiettata in una crisi profonda nella quale si sovrappongono i ricordi della vita passata, i bisogni della vita presente e le angosce per il futuro.
Si può considerare la famiglia come un organismo complesso formato da singoli elementi ciascuno dei quali subisce, in misura più o meno intensa, gli stessi traumi e sperimenta le stesse emozioni del malato.
La funzione di mediazione dello psicologo, conoscendo gradualmente sia il gruppo dell’equipe curante, sia il gruppo famigliare, può contribuire al loro incontro per la costruzione di un sentimento di familiarità volto a sostenere il malato in modo corale e a rispettare i suoi bisogni di essere informato e coinvolto fino alla fine.
Questo accanto al tentativo di curare i legami familiari costruendo la possibilità di una condivisione della sofferenza e di un ascolto reciproco tra famiglia e paziente, talvolta reso poco praticabile dall’intensità dell’esperienza e dalle difficoltà.
Al contrario, le Cure Palliative sono utili per il malato in fase avanzata, in quanto, perseguendo la migliore qualità della vita, lo proteggono dalle sofferenze inevitabili, salvaguardando la dignità della persona fino all’ultimo istante di vita.
L’OMS definisce le Cure Palliative come una serie di interventi terapeutici e assistenziali finalizzati alla cura attiva, globale, di malati la cui malattia di base non risponde più a trattamenti specifici, per cui diventa fondamentale il controllo del dolore e degli altri sintomi e, in generale, dei problemi psicologici, sociali, relazionali, spirituali.
L’obiettivo di tali cure non è la guarigione, ma, l’accompagnamento del malato e della sua famiglia, nell’ultimo tratto della malattia; esse vedono la vita e la morte come un processo naturale; non vogliono né affrettarla, né posticiparla.
Una persona diventa “terminale” quando, a causa di un’alterazione irreversibile del funzionamento degli organi e degli apparati del corpo, comincia a venir meno quel meccanismo d’autoregolazione che consente ad un organismo di vivere, sia pure a livelli diversi di salute. Il processo così iniziato ha come esito la morte.
L’Assistenza domiciliare viene considerata come una forma di assistenza da privilegiare, quando è fattibile, poiché si riconosce la casa come il luogo dove la persona si sente al centro della propria esistenza, padrona dei più intimi rapporti e partecipe delle più profonde emozioni.